La gran quantità d’informazioni sta trasformando i modelli di business delle aziende. Quando, in un dato settore, le informazioni iniziano a crescere a dismisura producono una vera rivoluzione, dalla quale le aziende possono cogliere nuove opportunità o perdere definitivamente la loro posizione di mercato.
Ad esempio, nel 2007 Nokia acquistò Navteq, azienda leader nell’ambito della navigazione stradale e sensori di traffico. Mediante l’acquisizione Nokia pensava di contrastare la concorrenza di Google e Apple (che aveva appena lanciato sul mercato il primo iPhone). Nello stesso anno, in Israele nasceva una piccola società, Waze. Il suo modello si basava sulle informazioni a costo zero che sarebbero state disponibili da lì a poco grazie alla diffusione degli smartphone. Tutti sappiamo come è andata a finire. Oggi 115 milioni di wazer contribuiscono alla navigazione in tempo reale, con una precisione e diffusione difficilmente realizzabile mediante l’installazione di sensori lungo le strade.
Possiamo osservare sempre più frequentemente casi di successo, come quello di Waze, di società che hanno saputo cogliere l’opportunità di un utilizzo massivo e gratuito delle informazioni a scapito di quelle che invece sono rimaste ancorate a vecchi modelli tradizionali. Le aziende sane sono proprio quelle più affamate di informazioni, in grado non solo di acquisirle ma anche di utilizzarle nel modo più appropriato.
Non sappiamo di preciso quali saranno i settori interessati dal cambiamento dovuto all’ampia disponibilità di informazioni e ogni ipotesi, visto il ritmo dell’innovazione, potrebbe essere fallace per difetto. Molto dipenderà dalle idee innovative che le aziende saranno in grado di generare e da fenomeni sociali difficilmente prevedibili. La capacità di cogliere le opportunità dipenderà da due fattori essenziali: scelte strategiche del management e capacità di governare le informazioni.
Sia chiaro che i risultati non derivano quasi mai direttamente dall’innovazione tecnologica ma dai nuovi modelli di business che si possono generare. Il punto focale è l’idea creativa volta a dare un beneficio ad un numero molto elevato di clienti, attraverso l’utilizzo delle informazioni disponibili. Purtroppo le idee belle sono poche e ancora di meno quelle che riescono ad affermarsi sul mercato nei tempi richiesti dal mondo degli affari. Ovviamente sarebbe ingenuo aspettarsi vera innovazione dalle nuove strutture organizzative di Innovation Management o dall’introduzione in azienda di figure appartenenti ad albi certificati. Nessuno sa a priori dove potrà svilupparsi una bella idea, in quale prossimo garage o in quale angolo del mondo
Dunque dovremmo applicare questi paradigmi a tutte le aziende? Non esiste una risposta univoca, almeno senza scadere in una eccessiva semplificazione della realtà. Tuttavia, anche in mancanza di un’idea davvero creativa è indispensabile, per tutte le aziende, spingersi nel processo di digitalizzazione e soprattutto valorizzare le informazioni disponibili e innovare i propri prodotti.
Se da un certo punto di vista le start up innovative sembrano avvantaggiate perché nate e disegnate intorno ad un’idea innovativa, anche le aziende tradizionali possono mostrare i muscoli, grazie a maggiori risorse, organizzazione e clientela consolidata.
Le aziende tradizionali italiane stanno facendo numerosi sforzi per avviare un processo di cambiamento volto proprio a cogliere le opportunità fornite dalle nuove tendenze tecnologiche.
In realtà, di innovativo in senso stretto si vede ben poco; forse potremmo parlare più di imitazione digitale, intesa come la ricerca di quelle best practice che consentano alle aziende di mantenere o di guadagnare posizioni di mercato. Il fenomeno che possiamo osservare, è molto più vicino a quello della moda. Chi ricorda la domanda della fine degli anni novanta: “hai internet?”. Nessuno sapeva che farci, ma era di moda. L’utilità la si scopriva solo dopo. Nulla di male, anzi, per le aziende che investono, i risultati non tardano ad arrivare.
Forse però oltre alle mode si dovrebbe guardare anche all’essenza. E se imitazione deve essere, allora si guardi a quello che accade su scala mondiale e non solo al vicino di casa.
Ad esempio, si osservi l’impatto di queste iniziative sull’agilità aziendale. Siamo sicuri che abbiamo ottenuto i risultati sperati? Le metodologie “Agile” si concentrano spesso soprattutto sulla gestione dei progetti e sul processo di sviluppo software, quando invece l’agilità richiesta dai nuovi paradigmi aziendali si riferisce ai processi organizzativi, ottenibile solo adottando altre metodologie.
Oltre all’agilità, le aziende dovrebbero puntare anche alla flessibilità e adattabilità dei processi. Purtroppo tali proprietà sono spesso sacrificate proprio in nome della digitalizzazione, quando invece dovrebbero essere obiettivi, al pari della riduzione dei tempi di attraversamento o dei costi.
Un ulteriore elemento che riduce l’agilità è individuabile nella frammentazione dei soggetti responsabili del cambiamento.
Per favorire l’innovazione (e non l’imitazione) è necessario avviare un vero e proprio cambiamento culturale. Su questo sono tutti d’accordo, un po’ meno su come questo debba essere realizzato.
Molte aziende sembrano intrappolate in un gioco simile a quello che gli psicologi chiamano doppio legame. Da una parte è richiesto, a tutti i livelli aziendali, un approccio cooperativo e creativo, mentre dall’altro si contrappone una cultura aziendale tradizionale. Una cultura tradizionale basata su metriche finanziarie che blocca sul nascere le nuove idee o censura la sperimentazione. Un esercizio tradizionale del potere gerarchico, che limita la comunicazione e la dialettica intra organizzativa.
La trasformazione culturale non può che passare dalla rottura di questi vincoli, attivando una visione meno competitiva e più cooperativa, associata ad una semplificazione dell’organizzazione aziendale per migliorare la collaborazione tra le diverse aree e favorire lo sviluppo di nuove idee.